Striano – Credo che nella vita di ognuno di noi ci siano dei momenti che vorremmo non arrivassero mai. Per quanto lo sforzo quotidiano sia teso a deviare le strade del destino, talvolta incroci solo apparentemente innocui presentano ai nostri occhi proprio quello che credevamo ormai lasciato alle spalle. Ricevo una telefonata che fluiva lenta come un’auto in uno di questi incroci. Solo alla fine, ahimè, trovo il semaforo rosso. La voce amica, per questo nota nei toni e nei modi, lascia presagio di intendere e dall’altra parte della cornetta mi dice: “Non so se lo sai già: purtroppo, è morto il Capo!…”. Ecco, questo è uno di quei momenti che nella mia vita avrei desiderato arrivasse mai. C’è voluto più di qualche minuto per dare un nome al tumulto sprigionatosi nel mio stomaco. Alla scarica emozionale che ha percorso la colonna vertebrale. Quel nome non l’ho ancora trovato: dolore è troppo generico, rabbia è troppo violento, tristezza è inadeguato. Quello che ho trovato, o almeno credo, è il modo con cui vivere il momento, tentando di gestire una situazione che mi ha spiazzato per tempi e modi. Spiazzato come un tiro a effetto del fantasista all’ultimo secondo di gara, che inganna il portiere inerme, vinto da una parabola che è anche metafora di una vita. C’è voluto qualche giorno per fare i conti con il coraggio di sedermi con la necessaria lucidità e scrivere qualcosa che potesse ricordare la figura di Francesco Gatti, da tutti conosciuto come ‘o Capo. La sfida più dura, lo dico con malcelato pudore, è scrivere coniugando i verbi al passato. Questo vorrebbe dire che si parla di qualcuno che non c’è più. Mi sono fatto forza, però, pensando che uno degli insegnamenti del Capo è (non era) quello di dare il giusto peso al passato come trampolino di lancio per vivere al meglio il presente. Ho fatto mio questo suo credo sin dal primo giorno che ebbi la fortuna di incontrarlo sulla mia strada. Una strada dritta nel luglio del 2006, senza incroci apparentemente innocui ma tutta da scrivere. Quell’estate rappresentò l’alba del mio fantastico triennio con il Gruppo Sportivo Striano, squadra di calcio locale della quale Francesco Gatti ha ricoperto anche la carica di presidente onorario. Grammatica e sintassi mi impongono tempi verbali con i quali farei volentieri a cazzotti ma una voce, quella del Capo, mi continua a ripete un suo tipico intercalare: “Jammo, ja!”. Sta tutta qui, in due parole sole, la filosofia di vita di un uomo che ha attraversato la storia, non solo calcistica, di questo paese. Non spetta al sottoscritto il compito di descrivere la figura di Francesco Gatti. Mi manca un importante e significativo pezzo di vissuto personale che, per ragioni di anagrafica, non ho potuto apprezzare in prima persona. Ringrazio il Cielo, però, per avermi regalato il privilegio di tre anni al suo fianco nel mondo del calcio e altri sei nella vita di tutti i giorni. Nove anni che rappresentano la decima parte della sua vita terrena e che accompagneranno, invece, la mia intera esistenza. Credo anche che nella vita di ognuno di noi ci siano dei momenti che faticheremo a scordare. Il periodo trascorso a fianco del Capo è uno di questi: sono stati anni di apprendistato nello sport che mi hanno traghettato fino alla soglia dei miei trent’anni. Lo sport, il calcio in particolare, è una presenza importante nella vita di Francesco Gatti. Un giorno mi disse: “Quando giocavo a calcio a Napoli, nel dopoguerra, ero un difensore centrale molto aggressivo che doveva sempre avere la meglio sul centravanti avversario. Non voglio vantarmi, ma come stile di gioco somigliavo molto a Fabio Cannavaro”. Poche parole che ci regalano la cifra umana di un uomo devoto al mondo del calcio nella maniera più autentica. Mi sono sempre chiesto da dove derivasse il nomignolo “’o Capo”. Non gliel’ho mai chiesto direttamente, però. Con la sciocca convinzione che potesse offendersi. Durante il triennio trascorso al suo fianco, la risposta me l’hanno indirettamente fornita tutti qui calciatori, allenatori, presidenti, dirigenti, avversari, tifosi, giornalisti e addetti a lavori che hanno conosciuto Francesco Gatti. La grandezza di certe figure umane la cogli anche e soprattutto nelle sfumature. Un esempio su tutti. Dopo un solo giorno di ritiro, nessun calciatore che indossasse per la prima volta la maglia dello Striano non era entrato in confidenza con il Capo al punto da salutarlo prima di chiunque, poggiargli in maniera filiale ma rispettosa il braccio sulla spalla chiedendogli la mitica gomma da masticare. Sul pacchetto verde c’è stampato un ponte americano, quello di Brooklyn. Un’immagine non casuale visto che Francesco Gatti è il ponte ideale che ha congiunto tutte le generazioni di calciatori giallorossi dal dopoguerra fino al nuovo millennio. Siamo a Palma Campania nel marzo del 2007. Da poco si è conclusa la partita Real Palmese – Striano con il punteggio di 0 a 1, rete decisiva dello strianese Gianni Adamo. La partita si è svolta a porte chiuse ma mezza Striano è assiepata sul muro di cinta dell’impianto cittadino. Negli spogliatoi è festa grande: la certezza matematica della vittoria del campionato è lontana un punto soltanto. Abituato a dare sempre credito ai numeri e non ad altro, non mi faccio prendere dall’entusiasmo più di tanto. Controllo che le carte e la distinta di gioco siano in ordine e mi volto per custodire tutto nella mia cartella. Mi ritrovo di fronte il Capo: lo guardo un attimo, capisco che ha capito. Il grande traguardo è a un passo e l’emozione sta per prendere il sopravvento sul suo copro. Do prova di insospettato dinamismo e stavolta sono io ad anticipare ogni sua possibile mossa: lui è l’attaccante e io il difensore aggressivo del dopoguerra. Lo prendo e lo porto via dallo spogliatoio con una scusa. Lui mi “bestemmia” qualcosa contro. Io fingo di non sentire e in meno di tre minuti siamo sulla strada del ritorno verso Striano. Torniamo da Palma Campania noi due soli, in macchina e con la canzone “Vivere a orecchio” di Luciano Ligabue come colonna sonora. All’altezza di Foce, il Capo mi guarda e dice “Jammo, ja!”. Io capisco che lui ha capito e mi scappa da ridere. L’altra sera, davanti al suo volto sereno che da poco aveva esalato l’ultimo respiro, sono rimasto incredulo e stordito. Credendo ad uno scherzo avrei tanto voluto dirgli: “Capo…jammo, ja!”.
Ettore Silverio